Pur non essendo un viaggio che abbiamo fatto in prima persona ma realizzato dal nostro Grande Amico Roberto Maculan non possiamo esimerci dal pubblicare questa ennesima impresa dell’oprazione Missionland.
Il racconto che segue scritto da Claudia una componente del gruppo racconta questa missione svolta a cavallo tra la fine 2008 e il Gennaio 2009.A tutto il gruppo vanno le nostre congratulazioni e auguri per i futuri impegni.
MISSIONLAND 10
dicembre 2008 – gennaio 2009
Sabato 13 dicembre, 2008.
Inizio del viaggio. Prendo il treno fino a Genova. Nell’astigiano c’è neve, nebbia, pioviggina. Penso al sole, al caldo, ai cieli azzurri che troverò in Africa! A Genova incontro gli altri componenti della spedizione in fila per l’imbarco. Dopo una lunga attesa finalmente si sale a bordo e si parte, con due ore di ritardo, alle otto passate. Ceniamo. Appena al largo di Genova il mare si rivela, come previsto, abbastanza mosso: camminare lungo i corridoi è un esercizio di equilibrio e si sbatte contro le pareti. Dormiamo tutti male, vuoi per il mare, vuoi per il caldo e l’aria secchissima.
Domenica 14.
Solita giornata sonnolenta, come sospesa fra due continenti. La nave (Excelsior) sballonzola un po’ meno. Fa scalo a Barcellona, poi riprende il mare, ora più calmo. Dormo molto meglio, fa un pochino meno caldo in cabina.
Lunedì 15.
Arriviamo a Tangeri alle 16. Le tre auto sono tra le prime a scendere, ma poi aspettiamo circa un’ora che scenda anche il camion. Fila per uscire dalla dogana, nonostante tutte le pratiche quest’anno siano state espletate sulla nave. Partiamo alle 18, nel pieno del traffico di una Tangeri sempre più estesa e moderna, in continua espansione. Ci mettiamo in autostrada passando al di fuori di Rabat, Casablanca, fino all’uscita a El Jedida. Ci fermiamo nella piazzola a dormire un paio d’ore, ma fa un freddo cane.
Martedì 16.
Congelati, più che intirizziti, ripartiamo verso le quattro del mattino. Alba di una giornata limpida e freddissima. Campagna verdissima, molti campi allagati. Evidentemente la perturbazione che ha portato a noi freddo, pioggia e neve non ha risparmiato il Marocco. Dopo Essaouira la strada sale in una valle di terreno rosso e sassoso, con piantagioni di alberi di argan verdi e rigogliosi. Arriviamo in vista dell’oceano: grandi onde creano una larga fascia di spuma bianca prima di arrivare sulla spiaggia. Prima di Agadir ci fermiamo – è l’ora di pranzo – in un magnifico ristorantino dove mangiamo del pesce squisito su una bella terrazza sul mare. La periferia di Agadir è un unico, immenso cantiere; la città si sta espandendo in maniera incredibile, con costruzioni pazzesche. Dopo Tiznit la strada sale per superare un passo a 1000 metri. Il panorama è molto bello: terreno sassoso, rosso, con piante grasse che formano dei cuscini verdi, curve a gomito, vista su distese di alture dalle sfumature azzurrine nel tramonto. Arriviamo a Guelmin, troviamo un albergo e andiamo a cena…. in pizzeria! Dormiamo come sassi.
Mercoledì 17.
Partiamo alle 8 e ci fermiamo subito fuori della città a fare colazione e alcune piccole riparazioni. A Tan Tan l’ingresso in città è segnato da due grandi cammelli di cemento ai due lati della strada. Facciamo gasolio. Dopo qualche chilometro raggiungiamo la costa a Tan Tan Plage. È alta e frastagliata, bellissima. Il mare ha grandi onde. Procediamo lungo la costa, oltre Tarfaya, fino a Laâyoun. Arriviamo prima del tramonto. La città è molto bella, grande, tutta nuova, con edifici colorati di ocra che diventano dorati-rosati al tramonto. È una città militare, piena di caserme; dappertutto gente in divisa; diversi militari delle forze ONU. Ci sistemiamo in un albergo, poi andiamo a cena in un ristorante lì vicino, “La Perla”, dove un compitissimo cameriere ci porta prima delle deliziose olive, poi ottimi gamberoni. Va anche al vicino albergo a prenderci delle vere birre! Dormiamo di nuovo come sassi.
Giovedì 18.
Pronti alle 7. Ricca colazione di fianco all’albergo con brioche, spremuta d’arancia, pane fresco, burro e marmellata. Facciamo rifornimento e ci avviamo verso Dakla: Il tempo è nuvolo, il mare livido, fa freddo. Dopo Boujdour la costa si abbassa, il mare si calma, il cielo si rasserena. I colori del mare sono bellissimi, tutte le sfumature del verde e del blu. Il terreno diventa deserto, piatto, di sassi e un po’ di sabbia. Proseguiamo, in un panorama quasi lunare, fino al bivio per Dakla e poco oltre, in una baia sulla laguna. Ci sono diversi camper e gente che fa wind-surf e kite-surf. Tira un vento freddo. Sistemiamo le auto. Tramonto: il disco si tuffa dietro la penisola ad una velocità incredibile. Ceniamo – una quantità enorme di pasta al tonno – poi facciamo una passeggiata sulla spiaggia con la bassa marea. Il cielo è stellato all’inverosimile, la Via Lattea proprio sopra di noi, le stelle tanto fitte che è quasi impossibile distinguere le costellazioni più note.
Venerdì 19.
La notte è molto fredda, dopo il primo sonno è difficile riaddormentarsi. Ripartiamo prima dell’alba, che vediamo, bellissima, dopo qualche chilometro. Intorno a noi il deserto è piatto, sassoso. A tratti la strada corre vicino all’oceano, che qui è calmo. Arriviamo al confine verso le 13 e per fortuna gli uffici sono aperti. Tra uscita dal Marocco e entrata in Mauritania se ne vanno oltre tre ore. Appena al di là del confine ci aspetta Ali, che ci guida attraverso la terribile terra di nessuno, impedendoci di insabbiarci come l’anno scorso. Poco al di là del confine attraversiamo i binari della linea Nouadhibou-Zouérat, “il treno più lungo del mondo” che porta minerale di ferro dalle miniere al mare e poco dopo vediamo passare il lunghissimo treno che sferraglia e trascina 150 vagoni! Dopo una sessantina di chilometri svoltiamo nel deserto, piatto, compatto, di un bellissimo color ocra. Procediamo per circa 40 km e poi con l’oscurità ci accampiamo.
Sabato 20.
La notte è stata di nuovo freddissima. Ripartiamo all’alba. Fa freddo e soffia l’harmattan: il cielo e il deserto sono di un bianco lattiginoso uniforme. Procediamo un po’ sui sassi, un po’ sulla sabbia. Ad un certo punto, in un avvallamento con sabbia più molle, ci insabbiamo tutti. Traffichiamo più di un’ora con le piastre per venirne fuori. Avanziamo ora in un deserto piatto, vuoto, che dà un senso di spazio infinito e di libertà. Incomincia anche a piovere: una vera pioggia, non quattro gocce, inaspettata nel deserto. Piove anche durante la notte.
Domenica 21.
Ancora nel deserto lungo la ferrovia. Usciamo dalla zona di sabbia molle e ci fermiamo a rigonfiare le gomme. Vicino c’è una mandria di cammelli, ma non si vede nessun essere umano. Dopo pochi minuti, però, si materializza il pastore, con il suo boubou azzurro e il turbante nero. Si infittiscono i cespugli verdi e le acacie. Raggiungiamo Choûm, un gruppo di case di terra raccolte intorno a una specie di grande piazza rettangolare. Ci sono piccole officine che vendono ricambi e fusti di carburante e una dozzina di bambini che si accapigliano per essere in primo piano nelle foto che scattiamo. Facciamo gasolio e compriamo del pane squisito. Ripartiamo verso sud su una strada in terra che fa vibrare anche il cervello nella testa. Scavalchiamo i monti dell’Adrar, neri, di granito, severi, quasi lunari. Scendendo arriviamo ad un’oasi, molto estesa, con palme da datteri. Il villaggio, Azougui, è molto carino, con casette curate con i muri intonacati e i tetti di paglia. Arriviamo ad Atar, un paese bruttarello, dove lasciamo il camion e proseguiamo per Chinguetti. La strada arrampica ripida in una gola spettacolare per arrivare poi ad un lungo altipiano, che solca in linea retta. A Chinguetti ci fermiamo all’Auberge Eden, nuovo nuovo con camere molto graziose intorno ad un cortile con bouganville fiorite. Vado a fare un giro nella cittadina, piena di piccoli negozi (bugigattoli) di cooperative artigianali femminili. La parte vecchia è molto suggestiva, con stradine piene di sabbia, tra muri di pietra, case con piccole porte di legno che nascondono antiche biblioteche, la vecchia moschea con un tozzo minareto quadrato. Nella luce dorata che precede il tramonto è molto suggestivo. Torno all’albergo in un buio fitto. La cena è ottima, una minestra molto gustosa e una specie di cus-cus di pollo ma fatto con il riso anziché con la semola.
Lunedì 22.
Andiamo con le macchine attraverso le dune alla Chinguetti più antica, che risale circa all’XI secolo e che è stata inghiottita dalle dune. Solo la moschea rimane fuori, con il suo minareto quadrato che però è stato ricostruito nel secolo scorso. Torniamo poi alla città vecchia, quella che ho visitato ieri sera. Facciamo un giro, seguiti da un folto codazzo di venditori e venditrici di monili e oggetti vari di scadente artigianato di chissà dove (evidentemente per i turisti è più importante dove si è acquistato un oggetto che non dove sia stato prodotto). Visitiamo una delle 12 biblioteche rimaste delle 33 originarie. Il padrone parla un ottimo francese e con istrionica abilità ci racconta un po’ di storia, ci mostra alcuni manoscritti, ci recita una poesia. Lasciamo Chinguetti e ritorniamo ad Atar. Ritroviamo il camion, risistemiamo i carichi e un superbo pranzo ci aspetta: cus-cus con carne di cammello, buonissimo. Si riparte, destinazione Nouakchott. Qualche chilometro dopo, all’imbrunire, si distrugge una ruota del camion: una lunga corda, caduta da sopra la roulotte, si aggancia al parafango, lo piega all’interno e causa il disastro. Ci accingiamo a cambiare la ruota; dopo un po’ si ferma un camion e gli autisti ci aiutano. Riprendiamo la marcia…. per interromperla ancora dopo pochissimi chilometri perché la ruota del camion sostituita ha ceduto. Di nuovo un camion si ferma e ci aiuta. Ma non basta: la terza ruota sostituita scoppia come una bomba. Non ci resta che fermarci a dormire ad una trentina di chilometri dalla meta e aspettare l’indomani.
Martedì 23.
Due macchine caricano le ruote danneggiate e partono alla volta di Nouakchott per farle riparare. Tornano verso le due, si monta la ruota, si parte per Nouakchott, dove lasciamo Ali. C’è il traffico delle ore di punta. Dopo pochi chilometri altro scoppio e siamo di nuovo fermi. In un centinaio di chilometri si sono distrutte cinque gomme! Qualcuno attribuisce tutti questi guai alla maledizione di … Tutankamion! Ci accampiamo per la notte.
Mercoledì 24.
Roberto ed io torniamo a Nouakchott alla ricerca di due gomme (ora non abbiamo più neanche quella di scorta). Ali manda un suo amico, Ahmed, ad aiutarci. Con lui giriamo tutta la città in lungo e in largo – quartieri residenziali con ministeri e ambasciate, mercati affollati e viuzze coperte di immondizie che sembrano gironi infernali – cercando presso almeno trenta gommisti prima di trovarle. Torniamo che è già buio, si monta la gomma e si parte.
Giovedì 25 dicembre.
Si fa mezzanotte: è Natale, ci facciamo gli auguri attraverso le radio con le quali ci teniamo in contatto e speriamo che Gesù Bambino ci guardi con occhio benevolo. Ma evidentemente era voltato dall’altra parte perché presto la gomma è a terra un’altra volta, la sesta. Sostituzione della camera d’aria e nuova partenza. Procediamo fino ad Aleg, dove ci fermiamo a dormire un paio d’ore. Ripreso il viaggio, a fine mattinata cede un’altra gomma (la 7°) mentre attraversiamo un agglomerato di case: nel giro di pochi minuti abbiamo decine di spettatori assiepati tutt’intorno. Nel corso della giornata subiamo un altro paio di forature, cui seguono le necessarie riparazioni. Ceniamo e procediamo ancora fino ad Ayoûn-el-Atroûs. Ci fermiamo a dormire perché siamo tutti esausti per il gran lavoro e la mancanza di sonno.
Venerdì 26.
Arriviamo finalmente al confine. Tre soste diverse per pratiche varie ci consentono di lasciare il paese che quest’anno si è rivelato per noi sfortunato e scaramanticamente salutiamo l’ingresso in Mali con la sensazione che i nostri guai possano darci una tregua. Incontriamo i primi baobab, che presto si infittiscono così come si infittisce la vegetazione: siamo fuori dal deserto e nella savana maliana. Incominciano a vedersi anche i primi villaggi di tucul e casette di banco (mattoni di fango secco) raccolte intorno ad un albero di mango. Lungo la strada attraversiamo dei mercati per viandanti, dove ci sono bancarelle di povere mercanzie e, curiosamente, moltissimi gommisti (“michelin”!) ma nessun meccanico. Probabilmente tutti gli autisti devono essere anche ottimi meccanici per non rimanere per strada.
Il camion procede spedito, acquistando velocità a mano a mano che l’aria si rinfresca (a mezzogiorno c’erano almeno 40°). Anche il cielo in Mali è limpido, mentre in Mauritania è stato sempre coperto e lattiginoso. All’ora di cena arriviamo a Kati alla missione delle suore. Ceniamo e facciamo una doccia ristoratrice, sebbene fredda. Roberto ed io dormiamo un paio d’ore e poi andiamo a prendere Bruno e Aldo che arrivano alle 3 e mezza con un’ora di ritardo.
Sabato 27.
La giornata è dedicata a rimettere in sesto “uomini e mezzi”: si fa il bucato, si smontano macchine. Il povero Moreno è bloccato dal mal di schiena. Roberto e Daniela, andati a Bamako a cercare ricambi vari e camere d’aria, tornano portando la notizia che ai margini della città si stanno concentrando un gran numero di veicoli militari pronti per andare al nord a soffocare la rivolta dei ribelli indipendentisti che va avanti da circa sei mesi. Tutti ci sconsigliano di andare a Timbuctù, nel territorio dei ribelli, in quanto un vistoso camion e tre fuoristrada sono molto appetibili: il rischio di farceli rubare è grosso. Decidiamo allora di scendere nel Burkina Faso, attraversarlo e passare in Niger per raggiungere Niamey, ecc. Andiamo a dormire in compagnia, ahimè, di diverse zanzare.
Domenica 28.
Mattinata dedicata a finire i lavori di riparazione. Verso mezzogiorno ripartiamo, salutati da suor Angela e un nugolo di bambini bellissimi e vivacissimi.
Tre del pomeriggio: la solita gomma (posteriore sinistra) scoppia come una bomba, seminando pezzi di battistrada, brandelli di camera d’aria, un cerchio. Si ripete l’operazione cambio per l’undicesima volta! Ci fermiamo più avanti da un gommista la cui bottega è una tettoia sotto un albero di mango e l’attrezzatura è impagabilmente grezza, primitiva e scassata. A Sikasso facciamo dogana e ci fermiamo a dormire.
Lunedì 29.
Entriamo in Burkina Faso a Koloko, dai nostri ormai vecchi amici che incollano con gran cura le foto sui loro libroni dei visti. Le pratiche richiedono le consuete due ore abbondanti. La temperatura sale a livelli veramente tropicali (40°) e ci fermiamo un’ora a Bobo-Dioulasso all’ombra degli alberi del centro missionario. Ripartiamo e arriviamo senza intoppi a Ouagadougou, che adesso è dotata di un pezzo di bellissima tangenziale che ci evita l’attraversamento del centro. Ci fermiamo a dormire a mezzanotte e mezza e mi addormento come un macigno.
Martedì 30.
Entrando a Koupela di prima mattina per cambiare dei soldi alla Bank of Africa ci fermiamo e sentiamo un sibilo: una ruota del camion perde aria! Se non ho perso il conto si tratta della dodicesima volta che cambiamo ruota sul camion. Proseguiamo. Il paesaggio ridiventa savana più rada. Per strada ci sono solo camion, nessuna auto privata, tranne uno o due fuoristrada nuovi, lucidissimi, con vetri fumé e aria condizionata. D’altra parte il gasolio costa circa come in Italia, € 1,20, molto più di quanto un burkinabé possa permettersi. Asini, capre, mucche e cani attraversano improvvisamente la strada, un maialino rischia grosso ma se la cava grazie alla prontezza di riflessi dell’autista. Arriviamo al confine con il Niger, convinti di poter ottenere lì il visto, ma un supponente funzionario dice che è impossibile. Non riusciamo a smuoverlo in nessun modo, quindi decidiamo che Bruno, Aldo ed io partiremo domani mattina per tornare a Ouaga al consolato.
Mercoledì 31.
Dopo aver dormito qualche ora, alle 2 ci alziamo e partiamo. Guidando nella notte disturbiamo asini, barbagianni, anatre che dormono pacificamente sulla strada. Troviamo senza troppa difficoltà il consolato nigerino. Il funzionario ci fa compilare le richieste, riscrive tutti i dati sul computer, riscuote i soldi…. e poi dice che non sa quando saranno pronti i visti. La mattinata passa ad aspettare su un divano, nella relativa frescura – almeno quella! – procurata dalle pale di un ventilatore al soffitto. Tutti gli sforzi per estorcere al malefico funzionario almeno una risposta (quando saranno pronti i visti? oggi? e se no, quanti giorni dopo la festa di capodanno che cade domani?) risultano vani. Finalmente, alle cinque del pomeriggio, soddisfatto di averci mostrato il suo capriccioso potere il funzionario ci consegna i visti. Aldo non sta bene e decide di rientrare. Lo accompagniamo all’aeroporto e prendiamo la via del ritorno. Raggiungiamo il gruppo e troviamo risotto, pandoro e chianti con il quale brindiamo al nuovo anno, sperando che il 2009 ci faccia grazia di un po’ di guai e allontani la sfortuna! Ci facciamo gli auguri e andiamo a dormire senza aspettare la mezzanotte canonica.
Giovedì 1° gennaio 2009.
Lasciamo la zona di confine, le formalità sono rapide. Attraversiamo bei villaggi con le tipiche case hausa, squadrate, di mattoni di terra cruda. A Dogondoutchi incomincia una serie di buche enormi su una strada che è una gruviera; dopo un po’ lavori di rifacimento ci mandano su una pista laterale di terra rossa. A Birnin-Konni ci fermiamo a dormire al Relais Touristique, mangiamo al ristorante – un pollo un po’ tenace con patatine – e il non dover rigovernare è un tocco ulteriore ai nostri festeggiamenti per capodanno.
Venerdì 2.
La strada è piena di buche. Passa per diversi piccoli villaggi di case di banco, con grossi granai costruiti in terra cruda a forma di salvadanaio con un coperchio di paglia. Ci sono anche magazzini a colonne, aperti sulla strada. Vendono decine, centinaia di sacchi di cipolle. Soffia l’harmattan e la polvere sospesa nell’aria dà l’impressione che ci sia la nebbia. Il cielo è bianco, non si vede l’orizzonte. Compriamo un’anguria che mangiamo – è dolcissima – durante una delle diverse soste per riparazioni al camion. La strada migliora e arriviamo a Zinder, dove troviamo un campeggio, accompagnati da una mezza dozzina di ragazzi che vogliono rifornirci di gasolio, cambiarci soldi, venderci monili.
Sabato 3.
Ci alziamo col buio, come quasi tutti i giorni. È incredibile la velocità con cui fa giorno: un momento incomincia appena ad albeggiare, un attimo dopo è chiaro! I primi 70 km fino a Guidimouni sono pieni di buche, poi la strada diventa bella liscia, nuova. C’è foschia, forse ancora la polvere sollevata dal vento di ieri. Gli alberi sembrano emergere dal nulla. Il paesaggio è davvero bellissimo, con un che di magico. A un certo punto il Discovery buca una gomma. Poco più avanti c’è un villaggio abbastanza grosso dove c’è un gommista e ci fermiamo a farla riparare. Mentre siamo fermi ci accorgiamo di un taglio in un pneumatico del camion. Tiriamo giù anche quella gomma (è la 13° volta) e il gommista fa un incredibile, espertissimo lavoro di cucito per aggiustarla con una pezza. Quando più tardi, dopo molte buche, la gomma scoppierà, noteremo che l’unico pezzo sano era quello con la toppa! La strada che ricordavamo era un incubo di voragini aperte e sabbia profonda; ora è nuova e liscia come un biliardo: irriconoscibile. Proseguiamo fino a Diffa, dove arriviamo alle nove e ci fermiamo su un piazzale all’uscita del paese.
Domenica 4.
Come prima cosa andiamo a presentarci alla polizia, ricordando la raccomandazione dell’anno scorso. Lì ci riconoscono, si ricordano di noi, ci assicurano la loro assistenza in caso di bisogno. Parliamo al telefono con Mado, la guida che abbiamo conosciuto l’anno scorso a Nguigmi, che dice che ci aspetta per pranzo e ha già tutto pronto, gli mancano solo i pomodori freschi. Rifletto sulla abissale differenza tra il nostro mondo dove non possiamo neppure concepire di non trovare ogni tipo di verdura fresca a pochi passi da casa e un posto dove l’unico tipo di verdura fresca che uno sia in grado di immaginare sono i pomodori, che sono in vendita solo a 100 km di distanza! Andiamo al mercato a procurare i pomodori. Troviamo la strada malandata come la ricordavamo, con enormi buche e piste laterali per superare i tratti peggiori. Arriviamo a Nguigmi e alla sbarra d’ingresso troviamo Mado, che ci porta a casa sua dove ci aspetta un ottimo cus-cus con capretto arrosto. Lui è felice di mostrarci Zara, la sua ultima figlia di sei mesi.
Ma anche quest’anno Nguigmi ci riserva un’avventura spiacevole: mentre si traffica intorno a una gomma Mado si accorge che alcuni ragazzini si sono intrufolati sul camion e hanno portato via un giubbotto e delle agendine. Ci accorgiamo poi che manca anche il borsello di Renzo con documenti e soldi. Si mette in moto la ricerca dei colpevoli.
A Nguigmi facciamo anche un altro incontro: tre suore, di cui due italiane, che vivono qui allo stesso modo degli abitanti locali, dedicando l’intera vita alla preghiera. Tre persone che emanano una serenità, una “forza inerme” (non saprei definirla diversamente), una semplicità e un atteggiamento di accettazione di tutto ciò che la vita può riservare che le rende così diverse da noi, concreti e frenetici, come se fossero dei marziani.
Ceniamo ancora da Mado con un’ottima insalata di pomodori (quelli di Diffa).
Lunedì 5.
Dopo la colazione che Mado ci ha preparato a casa sua, la mattina passa al commissariato di polizia. Lì dalla sera prima erano in custodia due ragazzini quindicenni – sembrano più giovani – che hanno l’aria di aver ricevuto una bella ripassata; poi ne hanno scovati altri due; alcuni genitori e altre persone vanno e vengono. Il furto li ha messi in grande agitazione: “ne va del buon nome del paese”. Di fatto poi non si risolve nulla e finalmente a mezzogiorno partiamo. Con Mado arriviamo al posto di confine. La pista nel deserto è abbastanza buona. Arriviamo ad Aboua, primo paese in Ciad, dove i controlli sono ben quattro: dogana, polizia, gendarmeria e sicurezza nazionale. Per cena ci fermiamo per una pastasciutta, che mangiamo al chiaro di luna, tanto è brillante la mezzaluna che splende. Più tardi ci accampiamo per la notte.
Martedì 6.
Ci alziamo in tempo per ammirare un’alba meravigliosa, con il cielo rosa e viola; poi sorge un disco rosso scarlatto. Proseguiamo sulla pista nella savana. È molto sabbiosa e abbiamo alcuni insabbiamenti. In un tratto in salita troviamo un camion insabbiato: è enorme, lunghissimo, con due escavatori Caterpillar sul rimorchio. L’autista sostiene di arrivare da Nguigmi essendo partito da Cotonou; pare impossibile che abbia già superato tutte quelle dune che a noi hanno dato del filo da torcere. Arriviamo finalmente a Bol alle quattro del pomeriggio. Andiamo agli uffici della dogana in riva al lago. Il posto sarebbe bellissimo, ma è un immondezzaio infestato da mosche e zanzare. I vari uffici sono già chiusi, ma i funzionari si dichiarano disposti a lavorare fuori orario, per un compenso naturalmente. Dopo aver girato tutto il paese avanti e indietro per andare a casa dell’uno e dell’altro, alle nove di sera, sfiniti, otteniamo finalmente il sospirato timbro.
Mercoledì 7.
Nella notte muore la mamma di Roberto, le cui condizioni da un paio di giorni si erano aggravate. Siamo tutti tristi, abbacchiati e di cattivo umore. Un ennesimo, grave guasto è un altro duro colpo: il Toyota sembra aver rotto la cinghia della distribuzione e non può proseguire con i propri mezzi. Decidiamo di trainarlo. È un viaggio di tregenda. Il povero Bruno guida il mezzo a motore spento, prendendosi grosse dosi di fumo di scappamento del camion e nuvole di polvere. Quando arriviamo, lui e Catherine, anche lei a bordo, sembrano statue di gesso. La strada è pessima, con molti passaggi difficili, dove le cinghie per il traino si strappano. Fa un caldo infernale. Viaggiamo a velocità ridottissima. Riusciamo comunque ad arrivare verso le 21.30 a N’djamena dove ci aspetta la cena, benvenuta perché abbiamo tutti fame. Poi, grande lusso, facciamo una lunga doccia e dormiamo in vere lenzuola.
Giovedì 8.
Mattinata dedicata alle richieste di visti e al bucato. Riassetto bagagli. Si ripara il Toyota. Nel pomeriggio parto con p. Franco per Mongo, gli altri seguono più tardi. Noi arriviamo alle 22:30, loro invece per strada hanno altri intoppi e arrivano ben oltre mezzanotte.
Venerdì 9.
Si svuota la roulotte di tutto il suo contenuto: una quantità incredibile! Con Daniela e Catherine vado a visitare una scuola. L’edificio non è grande a sufficienza, così la prima elementare è ospitata in una baracca di stuoia tradizionale. Incontriamo anche il sultano. P. Franco mi ha raccontato che è stato nominato di recente dopo la morte del padre. La carica non è strettamente ereditaria: tra i vari fratelli la famiglia ne aveva scelto uno per succedere al vecchio sultano, ma la comunità ha la facoltà di esprimere il suo parere e in questo caso hanno voluto che fosse nominato un altro figlio. Esempio di democrazia (non sempre dobbiamo essere noi ad esportarla!). La sera il vescovo (p. Henri, che avevo conosciuto due anni fa e che non è cambiato di una virgola), p. Franco e un altro prete ciadiano concelebrano una messa in suffragio della mamma di Roberto, seppellita oggi. La cappella è una semplice costruzione rotonda, spoglia, con il tetto di paglia conico. La funzione è abbastanza suggestiva, certo più intima e raccolta che in una normale chiesa delle nostre.
Sabato 10.
Si sistemano e si smistano molte delle cose che abbiamo portato: le batterie e i relativi fusti di acido, libri, medicinali, viveri. Si monta una cucina solare per provare il nuovo sistema, fatto con una semplice siringa riempita d’acqua, che dovrebbe assicurare una rotazione costante per seguire l’orientamento dei raggi del sole. Si devono completare alcune riparazioni, fare i bagagli, pranzare presto e partire. Si scopre però che il Toyota non ne vuol sapere. Non riuscendo a trovare il guasto, Roberto parte con il Runner con Daniela e Catherine che questa sera devono essere all’aeroporto per tornare in Italia. Ben presto si ferma anche la loro macchina. Bruno li va a prendere e li riporta al traino. Ripartono con una delle macchine della missione. Nonostante gli sforzi di tre o quattro meccanici di p. Franco il Toyota non si muove e noi passiamo la giornata in attesa di un rombo di motore che non arriva mai. Altra cena e notte a Mongo. C’è una splendente, bellissima luna piena. Prima di addormentarmi sento il rumore del motore: segno che il Toyota promette di muoversi.
Domenica 11.
I meccanici completano la riparazione e partiamo, con un passeggero al seguito e le sue due valige. Nel Toyota siamo pigiati come sardine. Fa un caldo infernale. A 100 km dalla meta il Toyota si mette a fare un allarmante rumore di ferraglia. Proseguiamo fino a N’djamena ai 60 all’ora. Arriviamo dopo otto ore e mezza, esausti. Si tenta la riparazione, ma non se ne viene a capo. Andiamo a dormire sperando di risolvere il problema entro domani mattina.
Lunedì 12.
La macchina continua a non andare nonostante i tentativi. Père Serge ha un pick-up doppia cabina nuovo da mandare alla prefettura apostolica di Doba. Decidiamo di portarlo noi, insieme al Discovery e andare a trovare Emmanuele a cui quest’ultimo è destinato. Roberto e Carlo escono allora per andare a fare il pieno di gasolio, ma ad una rotonda hanno un “incidente”: un tale in moto, arrivando in piena velocità da sinistra, batte con la sua ruota contro la ruota del pick-up guidato da Roberto. Nessun danno per nessuno, ma arriva immediatamente un poliziotto che vuol portare Roberto in commissariato. Lui invece torna alla procura dei gesuiti e chiama p. Serge. Si va al commissariato e dopo una pantomima che dura circa un’ora e mezza si finisce per pagare il “danneggiato”, il poliziotto, il capitano del commissariato e persino il guardaportone. P. Serge ci conferma che qui se un bianco appena sfiora qualcuno deve comunque pagare, pena una lunga serie di convocazioni, denuncie, ecc. che finiscono per costare molto di più. Il bello è che nessuno si interessa minimamente di come sia avvenuto il fatto, di quali siano i reali danni se ce ne sono, di chi abbia torto e chi ragione: sei bianco? qualsiasi pretesto è buono per spillarti un po’ di quattrini.
Martedì 13.
Lasciamo il Toyota a N’djamena: Bruno, che torna in Italia questa sera, lo porterà in officina dove lo ripareranno e Monica, la destinataria, ne entrerà in possesso più tardi. In cinque, i rimasti, partiamo con il Discovery ed il pick-up nuovo. Attraversiamo il fiume Chari e andiamo verso sud. Fino a Moundou la strada è ottima. Lì si attraversa il fiume Logone, su uno stretto ponte ad una sola corsia, al fondo del quale si fronteggiano un camion da cantiere e un camioncino con il consueto grappolo di passeggeri seduti sui sacchi e sulle mercanzie nel cassone. Entrambi rifiutano categoricamente di indietreggiare per consentire all’altro il passaggio. Intorno, pedoni, biciclette e capre si spingono per passare. Dopo un quarto d’ora di trattative il camion innesta la marcia indietro e riusciamo a proseguire. Arriviamo a Doba e ci viene incontro Emmanuele – che ha viaggiato con noi l’anno scorso – che ci accompagna dalle suore della missione, dove scarichiamo il materiale destinato a loro e a Monica. Emmanuele ci racconta di aver avuto cinque attacchi di malaria in pochi mesi che lo hanno debilitato, ma ora si è ripreso. Lo salutiamo e ripartiamo alla volta del Camerun. Procediamo su un ottimo fondo di asfalto fino a Ngaoundéré, dove arriviamo e montiamo le tende all’una del mattino.
Mercoledì 14.
Ngaoundéré è in montagna e di notte fa un freddo cane: non chiudiamo praticamente occhio e prima dell’alba ci alziamo, intirizziti. Incominciano 280 km di strada sterrata, parte accettabile, parte piena di buche, tutta però con abbondanza di polvere rossa; ogni incrocio con un altro veicolo ci immerge in una nuvola cremisi. A Garoua Boulai ritroviamo l’asfalto e ci fermiamo a bere una birra fresca. Di qui fino a Bertoua la strada è ottima, asfaltata da poco. Il paesaggio cambia: la vegetazione si fa fitta, con alberi altissimi; ci sono fiumi, laghetti, torrenti. Le case sono in mattoni di argilla, intonacate, con il tetto di paglia; è tutto ordinato e pulito, c’è sempre qualcuno che spazza e finalmente non si vedono immondizie in giro. Dopo Bertoua la strada diventa orribile per oltre 200 km. All’una del mattino arriviamo finalmente a Yaoundé e ci viene incontro Monica.
Giovedì 15.
Monica ci porta a casa di suoi amici che già ospitano lei. Mangiamo del pollo arrosto e andiamo a dormire. La mattina andiamo a comprare i biglietti per il ritorno e ammortizzatori e gomma di scorta per il Discovery, che deve ancora portarci a Douala, circa 240 km. Pranziamo (un ottimo spezzatino in salsa di arachidi con una specie di patate che non sono patate) e partiamo. Percorriamo una bella strada tra fitta vegetazione. I guidatori locali sono perlopiù pazzi spericolati, specie quelli degli autobus: vediamo dei sorpassi che ci fanno drizzare i capelli. Arriviamo a Douala e andiamo in un albergo dove facciamo una doccia e risistemiamo i bagagli. Per andare a cena, accompagnati da Frank, un amico di Monica, prendiamo un taxi: siamo in sei, ma ci pigiamo tutti nella stessa auto. Il ristorante consiste in alcuni tavoli in una strada dove al centro c’è una grande griglia su cui cuociono il pesce che ognuno si sceglie da un bancone. Aspettiamo a lungo che cuocia ed è squisito. In questi “ristoranti” non esistono né bicchieri né posate; beviamo la birra dalla bottiglia e mangiamo il pesce con le mani: non è facile ma ci arrangiamo.
Venerdì 16.
Prima dell’alba andiamo all’aeroporto. Fa un caldo umido veramente equatoriale (siamo a 4 gradi dall’equatore). Il nostro volo parte in orario. Stiamo lasciando l’Africa con un certo rimpianto, soprattutto pensando alle temperature intorno allo zero e alle giornate corte che troveremo. Ci siamo riempiti gli occhi e il cuore dell’Africa, dei suoi cieli, dei suoi colori, della sua gente. Abbiamo rivisto p. Franco, con la sua energia, il suo entusiasmo contagioso; p. Henri, il vescovo, uomo di lettere e di cultura che pare un po’ incongruo in una realtà come Mongo, ai margini del deserto; p. Serge, potente eminenza grigia dei gesuiti, dall’aria dimessa, che però risolve qualsiasi difficoltà; l’instancabile, energica Ermanna, console onorario in un paese difficile; Emmanuele, che abbiamo lasciato ragazzino inesperto l’anno scorso e ritrovato pieno di un ammirevole coraggio. Abbiamo visto panorami da favola, spazi aperti, colori accesi. Abbiamo anche avuto sfortuna, molti intoppi, guasti, forature. Il gruppo ha tenuto, anche se lo sconforto in alcuni momenti avrebbe potuto prendere il sopravvento, e questa si può considerare una vittoria di tutti: Moreno, con il suo candore, che è tornato a casa quando incominciava a prenderci gusto; Carlo, con il suo fare sempre un po’ distaccato, con una saggezza tutta sua; Paolo, concreto, che ha sempre una battuta per sdrammatizzare; Renzo, sfortunata vittima del furto, alla sua seconda esperienza africana; Bruno, sempre pronto ad infilarsi nella tuta e sdraiarsi sotto a una macchina o cacciare la testa in un motore; Catherine, che ha sempre dormito in un angusto loculo sulla roulotte, sospeso sulle 24 batterie destinate a p. Franco; Daniela, che con la sua fida telecamera ha documentato tutti i momenti del viaggio, le forature, il lavoro, i panorami; soprattutto una vittoria di Roberto, mente di tutta la faccenda, che non ha abbandonato il gruppo né l’impresa neppure dopo essere stato colpito dal lutto della morte della madre, quella Tosca di cui ogni tanto ci raccontava qualche episodio. All’arrivo a Bologna ci lasciamo di corsa, salutandoci in fretta, quasi che non si volesse segnare una chiusura definitiva dell’avventura.
claudia